1
Etichette, categorie, definizioni strette in cui le persone vengono costrette, giudicate per tratti specifici, e spesso escluse da una partecipazione equa alla società.
Classificazioni che servono a semplificare ciò che esce dagli schemi, ciò che è considerato meno comune. In teoria aiutano a capire,
ma nella pratica diventano strumenti di controllo, di sorveglianza sottile.
Spesso queste etichette ci vengono appiccicate addosso senza che ci venga chiesto nulla. Ci vengono imposte dall'esterno. Eppure, paradossalmente, è proprio grazie a queste etichette che diventiamo visibili. Quelle parole, nate per definire, iniziano a raccontare chi siamo. Troviamo altre persone come noi, condividiamo vissuti, ci riconosciamo a vicenda.
E da quel momento, quelle stesse etichette che dovevano ridurci al silenzio diventano strumenti di identità.
Il nostro incontro crea comunità. E così, quando le nostre voci iniziano a farsi sentire, disturbano un sistema che non si è mai dovuto definire perché si è sempre considerato la regola.
Una persona può portare addosso molte etichette, tante quante sono le sue particolarità che il mondo non riesce a collocare dentro i parametri "normali". Non sei tu a scegliere l'etichetta, è la società che te la assegna, appena si accorge che non rientri nel profilo standard. Quel profilo idealizzato che nasce da visioni riduttive,
spesso legate a logiche di esclusione e a un darwinismo sociale mai davvero superato, che cerca continuamente di correggere ciò che devia.
Eppure, una volta che quelle etichette diventano parte di te, cominci a usarle. Le pronunciare ad alta voce, e quel gesto, già di per sé, disturba l'ordine delle cose. Fa rumore. Perché il mondo che ti ha marchiata non è pronto ad accettare che tu ti identifichi in ciò che loro hanno usato per emarginarti.
Quando rivendichi quelle parole come tue, allora non vanno più bene. "Siamo tutti uguali", ti dicono. "Perché dover specificare tutto?".
Ma questo vale solo quando sei tu a parlare. Perché quando parlano loro, le etichette servono eccome, servono a mantenere una divisione.
Viviamo in un sistema che celebra l'omologazione e teme la complessità. Una realtà patinata dove tutto ciò che non si capisce facilmente viene allontanato, semplificato, etichettato come problema. E quelle etichette, nella logica dominante, dovrebbero servire a questo: a segnalare chi è "fuori posto".
Ma non avevano previsto che un giorno quelle etichette sarebbero diventate bandiere, simboli di orgoglio e di appartenenza.
Ed è lì che nasce il fastidio. "Orgoglio? Orgogliosa di essere donna? Fiero di essere gay, trans, nero, disabile?" chiedono con tono scettico. Perché nella loro visione, quelle parole dovrebbero indicare ciò che vale meno, ciò che è da tollerare, non da celebrare.
Questo è il punto critico: da un lato la società ha bisogno di etichettare tutto ciò che esce dai canoni, ma dall'altro non riesce a gestire le identità che da quelle etichette si sviluppano. E allora tenta di azzittirle, di renderle invisibili, di riscriverne la narrazione. Perché lo sanno: ciò che non si nomina non esiste.
"Perché dire che quella discriminazione è omofoba?" chiedono quelli che non hanno mai subito violenze per il semplice fatto di essere se stessi. "La violenza è sempre sbagliata", affermano. "Non serve dividere", ripetono, mentre continuano a distinguere sin dalla nascita tra chi deve indossare il rosa e chi l'azzurro, tra chi deve rientrare in certi ruoli e chi no.
E invece sì, serve eccome nominare le differenze, mostrarle senza timore, con fierezza. Perché quel ragazzo non sarebbe stato aggredito se non fosse uscito tenendo per mano un altro ragazzo, da un locale "troppo etichettato". Se fosse uscito con una ragazza, tutto sarebbe passato sotto silenzio.
È l'etichetta a scatenare la violenza. La discriminazione nasce sempre da una distinzione marcata, da una parola usata come bersaglio.
Non tutte le violenze sono uguali. Sono tutte inaccettabili, certo. Ma alcune hanno radici specifiche, aggravanti precise che non si possono ignorare. Perché no, non siamo tuttə uguali. Siamo diversi.
E le differenze non vanno nascoste o annullate. Vanno comprese, rispettate, accolte.
Il problema non è l'etichetta in sé, ma il significato che le si attribuisce. È il potere che viene distribuito in modo diseguale, relegando chi è "diverso" ai margini e lasciando chi rientra nei canoni a vivere senza mai doversi spiegare, senza mai essere etichettato.
Forse dovremmo davvero imparare, come propone il sociologo Eviatar Zerubavel, a rendere visibile ciò che diamo per scontato. A specificare che a commettere certi atti sono state "persone eterosessuali", o "italiane", o "neurotipiche". Forse dovremmo iniziare a scrivere articoli sui "ragazzi normodotati che si laureano con il massimo dei voti", non solo su quelli con disabilità.
Forse è il momento di riconoscere che la "normalità" non è l'unica via, ma solo una delle tante possibili. E che finché continueremo a dare più valore alla frequenza statistica che alla dignità delle persone, continueremo a costruire esclusione, stigma e sofferenza. Ma potremmo scegliere di fare il contrario.
Potremmo imparare a guardare oltre le etichette, o meglio: a riconoscerle tutte, anche quelle invisibili. E forse allora, davvero, cominceremo a parlare di uguaglianza.
-packweed